Violenza contro le donne
Il 27 giugno 2013 il Parlamento ha approvato all’unanimità la ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. La Convenzione è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante, volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. La Convenzione interviene specificamente anche nell’ambito della violenza domestica che non colpisce solo le donne ma anche altri soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali si applicano le medesime norme di tutela. La Convenzione precisa che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani ed è una forma di discriminazione.
L’Italia è stata inoltre tra i primi paesi europei a fare propria la “Convenzione di Istanbul”, (in vigore dal 1 agosto 2014) ratificandola nel giugno del 2013 e prevedendo anche una prima forma di adeguamento ad essa mediante l’approvazione del decreto 93/2013 contro la violenza sulle donne (Legge n. 119 del 15 ottobre 2013).
E’ stato il primo grande Paese a sottoscriverla, però rimane, tra i grandi paesi europei, uno di quelli con gli indicatori più negativi per quanto riguarda la condizione delle donne.
Nella classifica redatta dal World Economic Forum, abbiamo guadagnato nove posti nella graduatoria sulla disparità di genere per merito di un miglioramento dell’indicatore sulle elette alla Camera e al Senato, ma rimaniamo al 71esimo posto su 136 paesi. Siamo collocati nella parte bassa della graduatoria per partecipazione alla vita economica (97esimo), al 72esimo per la salute e al 65esimo per la scolarizzazione.
Per questo, l’attuazione della Convenzione di Istanbul è una occasione fondamentale per far fare un passo in avanti al nostro Paese ed è una sfida per noi tutte perché ha una portata innovativa straordinaria.
E’ il più avanzato strumento giuridico di contrasto alla violenza a livello internazionale e disegna una strategia articolata che per noi rappresenta, appunto, una sfida: azioni precise di sostegno, prevenzione, punizioni del colpevole e, nello stesso tempo, rottura di stereotipi e cambiamento culturale, azioni concrete sul piano amministrativo ed istituzionale e sul piano del senso comune del Paese.
Riconoscere la violenza maschile sulle donne con un approccio politico e come una violazione fondamentale dei diritti umani, nel suo legame e nel suo intimo rapporto con il tema della parità tra i sessi e con la necessità di rimuovere discriminazioni, stereotipi e pregiudizi, non è affatto scontato per noi.
Non molto distante il tempo in cui la violenza è stato riconosciuto reato contro la persona da reato contro la morale o quello in cui abbiamo abolito l’attenuante del delitto d’onore.
Se ci guardiamo indietro, l’approvazione della Convenzione di Istanbul è un enorme passo avanti, ma se ci guardiamo intorno capiamo che abbiamo bisogno di un grandissimo impegno corale per promuovere quegli obiettivi di prevenzione della violenza, presa in carico delle vittime e punizione dei colpevoli e per affermare quegli obiettivi di parità tra uomini e donne che sono strettamente intrecciati con il fenomeno della violenza, che affonda le sue radici in una situazione di disparità.
La Convenzione prevede una serie di obblighi di adeguamento degli stati firmatari: dalle politiche integrate (coinvolgimento della società civile, risorse, monitoraggio e raccolta dei dati) a quelle di prevenzione (formazione degli operatori, ruolo della scuola, dei media e delle istituzioni pubbliche in generale), a quelle di protezione e sostegno delle vittime (attivazione di centri antiviolenza, case rifugio, sportelli, numeri telefonici; misure per garantire l’autonomia delle donne, alloggio, sanità,…). Poi prevede tutta una serie complessa di misure e di azioni a tutela delle donne sul piano del diritto sostanziale, su quello di natura penale delle indagini e del processo, fino ad affrontare, negli ultimi capitoli, il problema del monitoraggio e del controllo delle politiche. Con la legge n. 119 del 2013, quella cosiddetta sul femminicidio, abbiamo recepito alcune misure della Convenzione. Ma noi pensiamo che siano importanti ed utili molte previsioni in esso contenute – che dovrebbero essere monitorate dopo un anno dalla sua entrata in vigore – ed in particolare sottolineiamo l’importanza dell’articolo 5 e del 5bis, che prevede la predisposizione di un piano nazionale antiviolenza da costruire con il contributo delle diverse amministrazioni, delle associazioni e dei centri antiviolenza. Per questo si sono istituiti sette tavoli di lavoro (la cosiddetta task force governativa) su diversi aspetti, che coinvolgono i ministeri interessati (da quello degli interni a quello della salute e molti altri).
Non è possibile, infatti, dare seguito agli impegni della Convenzione e della legge 119 senza un forte indirizzo politico e programmatico. La nomina di una ministra per le pari opportunità avrebbe sicuramente potuto dare maggiore impulso a tale azione.
Noi crediamo che gli articoli 5 e 5bis della legge sul femminicidio siano il cuore delle questioni che abbiamo di fronte, perché solo perseguendo con forza la strada della costruzione di politiche di prevenzione e di accoglienza riusciremo ad annodare quella rete, anche territoriale, che ci consente di contrastare con efficacia il fenomeno. Dobbiamo ripartire da qui: dalla definizione di un piano che contenga linee guida e standard di prevenzione, accoglienza e contrasto alla violenza su tutto il territorio nazionale. Sappiamo infatti che la frammentarietà delle politiche, la loro incertezza e debolezza in tante regioni e realtà territoriali è il problema che abbiamo di fronte.
In primo luogo iniziando da un monitoraggio efficace dei dati, che è uno degli impegni prioritari della Convenzione. Senza il monitoraggio dei dati e delle politiche, senza una analisi del fenomeno, non avremo neppure la giusta misura delle politiche e di una strategia che sia organica, fatta di passi coordinati:
- Dare certezza delle risorse, dei canali e dei criteri di finanziamento delle politiche;
- Sviluppare il ruolo della prevenzione e dell’informazione dei media e della scuola (educazione ai sentimenti e al rispetto. Anche gli insegnanti devono essere formati).
- Puntare sulla formazione: è ancora troppo basso il livello di consapevolezza della necessità di un approccio di genere nei servizi tra gli operatori sanitari, sociali, quelli della giustizia e le forze dell’ordine. Quali sono le risposte giuste che gli operatori sono tenuti a fornire? Quali sono le modalità ed i canali per la formazione? Chi fa cosa?
- E poi ancora: come si valorizza e si estende il lavoro di rete sul territorio, a partire da quello dei centri antiviolenza, delle case rifugio, delle associazioni, degli enti locali, dei presidi sociosanitari? Come si costruisce il percorso di presa in carico delle donne? Chi sono i principali attori, protagonisti e responsabili?
Per favorire l’emersione del fenomeno è necessaria la certezza dei percorsi e dei soggetti coinvolti.
E la Convenzione di Istanbul ci indica anche una strada, un metodo, che è quella del coinvolgimento, dell’ascolto e della trasversalità dei soggetti coinvolti, della valorizzazione delle politiche migliori, del mainstreaming.
Oggi abbiamo il Parlamento ed il Governo più rosa della storia della repubblica ed è una grande opportunità che non possiamo perdere per promuovere un punto di vista delle donne ed una soggettività femminile.
Senza questo sforzo culturale la battaglia contro la violenza sulle donne rientrerebbe nei ranghi della categoria dell’emergenza e “dell’ordine pubblico” dalla quale faticosamente si sta tentando di uscire in questi anni grazie al lavoro e all’impegno dei tanti luoghi diversi in cui le donne hanno portato la propria soggettività, dove hanno portato avanti la propria battaglia e che sono stati laboratori dove si è costruito e si costruisce un pensiero ed una pratica per concepire relazioni diverse ed un modo diverso di stare insieme per gli uomini e per le donne. Non solo risposte ad un bisogno, non solo lotta alle discriminazioni, ma un modo diverso di guardare al mondo per cambiarlo.