Interrogazione a risposta in Commissione
Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
Al Ministro della Giustizia
Per sapere; premesso che:
da giorni sono in corso manifestazioni e proteste contro le motivazioni dell’assoluzione in secondo grado di sei ragazzi accusati, nonché in primo grado condannati, di aver stuprato in modo particolarmente efferato una ragazza di Firenze nel 2008;
si tratta del caso conosciuto come “stupro della Fortezza da Basso”, con riferimento al luogo dove avvenne la violenza;
la vicenda è accaduta il 26 luglio del 2008 in una macchina parcheggiata fuori dalla Fortezza da Basso, a Firenze dove erano in corso feste e eventi estivi e ha visto coinvolta una ragazza che all’epoca aveva 22 anni e sette ragazzi che avevano tra i 20 e i 25 anni;
dopo la denuncia per stupro (presentata quattro giorni dopo i fatti), gli accertamenti medici e le indagini, gli imputati vennero arrestati: rimasero un mese in carcere e circa due mesi ai domiciliari;
il processo, nel quale il comune di Firenze si era costituito parte civile, terminò nel gennaio del 2013 con la sentenza di condanna per sei dei sette accusati a 4 anni e 6 mesi di reclusione, che furono condannati per violenza sessuale di gruppo aggravata dal fatto che la vittima era ubriaca, cioè dal fatto che i violentatori avevano abusato delle sue “condizioni di inferiorità fisiche e psichiche” dovute all’abuso di alcol;
la Procura generale ha lasciato scadere i termini per l’eventuale ricorso in Cassazione, rendendo così definitiva la sentenza della Corte di appello di Firenze nel 2015, che faceva seguito alla condanna in primo grado e che ha scagionato gli aggressori;
qualche giorno fa sono state rese note le motivazioni di quella sentenza: si legge che la vicenda è “incresciosa” ma “penalmente non censurabile” poiché la ragazza, sempre secondo quanto scrivono i giudici, con la denuncia avrebbe inteso “rimuovere un suo discutibile momento di debolezza e fragilità”;
secondo i giudici d’appello, invece, il comportamento della ragazza fa “supporre che, se anche non sobria” fosse comunque “presente a se stessa” e, riferendosi al rapporto sessuale imposto, la Corte parla di una “iniziativa di gruppo comunque non ostacolata” ritenendo, inoltre che i ragazzi possano aver “mal interpretato” la disponibilità della ragazza, ma che poi non vi sia stata “alcuna censura apprezzabile tra il precedente consenso e il presunto dissenso della ragazza, che era poi rimasta `in balia´ del gruppo”;
Secondo i giudici d’appello, inoltre «molte sono le contraddizioni» nel suo racconto: la sua versione è ritenuta «vacillante» e smentita «clamorosamente» dai riscontri: non hanno creduto al racconto della giovane;
la Corte d’appello ha accolto dunque in pieno la tesi delle difese: la ragazza, nota per le sue libertà sessuali, sarebbe stata consenziente durante i rapporti di gruppo e avrebbe fatto ritorno a casa in bicicletta; con il passare delle ore, però, si sarebbe resa conto di quello che era accaduto, per poi decidere di presentarsi in questura il 30 luglio dopo essere stata visitata al centro antiviolenza di Careggi;
inoltre, per giustificare l’assoluzione piena degli imputati “perché il fatto non costituisce reato” i giudici si servono, a conclusione della lunga argomentazione in merito alla mancanza di credibilità della vittima, di considerazioni “sociologiche” volte a corroborare la scelta di proscioglimento: in particolare le abitudini sessuali della ragazza e le sue precedenti esperienze lavorative, del tutto estranee all’oggetto della valutazione, vengono passate in rassegna quali elementi di chiarificazione della personalità della giovane, che dunque aiutano a comprendere come in realtà non vi fosse stato alcunché di violento o contrario alla libera determinazione di ciascuno dei partecipanti;
i giudici traggono dalle informazioni che hanno a disposizione (condizioni familiari ed economiche, partecipazione a un film “splatter”, sue precedenti esperienze sentimentali eterosessuali e omosessuali) conclusioni relative al suo carattere sicuro e disinibito: secondo i giudici, se la ragazza aveva potuto “reggere” senza problemi scene di sesso e violenza all’interno di un film, non risultava poi del tutto assurdo che si fosse volontariamente posta nella situazione in cui si trovò la notte fra il 26 e il 27 giugno 2008, salvo pentirsene subito dopo;
tale tipo di motivazioni, pur nel rispetto e nella fiducia nell’azione autonoma della magistratura, non possono che lasciare esterrefatti poiché riportano il dibattito culturale, al quale ha risposto un’importante evoluzione normativa nel nostro Paese (il 1o agosto 2014 è entrata in vigore la «Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica», meglio nota come Convenzione di Istanbul, indietro nel tempo e nell’evoluzione culturale: i delitti di cui stiamo trattando hanno sulle donne un impatto sproporzionata, si tratta di una violazione dei diritti fondamentali e il cui impatto non tocca soltanto le vittime, ma riguarda anche le famiglie, gli amici e la società intera e che richiedono una visione critica e attenta alle risposte che dallo Stato possono arrivare e di come esse possano riflettersi sulla società;
la Convenzione, adottata a Istanbul nel 2011, costituisce il primo strumento internazionale vincolante sul piano giuridico per prevenire e contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica e si fonda su tre pilastri: prevenzione, protezione e punizione, ponendo particolare enfasi sui primi due, gli unici in grado di sradicare una violazione dei diritti umani ormai sistemica in Europa e particolarmente grave si esprime con chiarezza sulla necessità di evitare in ogni modo la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”: e cioè la colpevolizzazione della vittima, che consiste nel ritenere la vittima di un crimine o di altre sventure parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto e spesso nell’indurre la vittima stessa ad auto colpevolizzarsi: un atteggiamento di “colpevolizzazione” è anche connesso con l’ipotesi che si deve conoscere e accettare una supposta “natura intrinseca” ;
nella sentenza viene ricostruita in modo piuttosto insistente la storia della vita sessuale passata della ragazza con la descrizione di fatti ben precedenti al fatto: «dopo un rapporto omosessuale durato un paio d’anni»; «aveva collaborato ad un film del tipo splatter in cui recitava la parte di una prostituta, con scene di sevizie, violenze e perversione»; «aveva un rapporto sessuale estemporaneo all’aperto, in una viuzza vicino piazza S.Croce, sebbene egli fosse legato da tempo ad una ragazza da lei conosciuta» «aveva un rapporto sessuale occasionale in casa di lui» (un secondo rapporto occasionale) e si cita anche il fatto che la ragazza, giorni dopo quella sera, avesse partecipato ad un “workshop” estivo chiamato “Sex in Transition”;
la somma di tutti questi elementi, nelle motivazioni della sentenza, comporrebbe il profilo psicologico della presunta vittima («un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta»);
tutto ciò appare seriamente in contrasto con le previsioni della Convenzione di Istanbul, che si riferisce espressamente alla necessità di “non fornire mai un contesto che fornisca a sua volta una giustificazione alla presunta violenza o che ne vizi il giudizio” anche per non cadere, in contrasto anche con le previsioni della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2012/29/UE recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, la quale sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, dando attuazione ad uno dei principali punti del Programma di Stoccolma;
tra le principali preoccupazioni del legislatore europeo vi è infatti quella di diminuire il rischio di vittimizzazione secondaria, che risulta particolarmente grave soprattutto in relazione a particolari categorie di vittime per cui sono dettate apposite disposizioni. La direttiva non fornisce una definizione del fenomeno, ma chiede che lo si possa prevenire, anche provvedendo alla formazione degli operatori suscettibili di entrare in contatto con le vittime, come i funzionari di polizia ed il personale giudiziario, i giudici, gli avvocati e coloro che forniscono servizi di assistenza, sostegno o di giustizia riparativa, affinché siano sensibilizzati alle loro esigenze e posti in condizione di trattarle in modo appropriato,
non è, ovviante, in alcun modo nelle intenzioni degli interroganti l’idea di mettere in discussione la sentenza, frutto dell’operato autonomo della magistratura, le preoccupazioni espresse riguardano piuttosto l’impatto che le motivazioni di tale sentenza, una volta rese pubbliche, hanno generato nell’opinione pubblica, in un periodo di particolare emergenza relativa alla violenza sulle donne: l’affermazione dei diritti delle donne, come non è un dato acquisito, basta ricordare la pagina negativa sui diritti sessuali e riproduttivi nel testo uscito dalla Conferenza di “Rio+ 20” nel 2012 che ha riportato in ambito ONU le tensioni conservatrici di molti paesi, in cui il riconoscimento dei “diritti universali” si scontra con interpretazioni restrittive degli stereotipi di genere fino alla violazione dei diritti fondamentali delle donne (Rapporto sull’attuazione della Piattaforma d’Azione di Pechino Rilevazione quinquennale: 2009-2014 ) ;
Se il Governo non ritenga, anche alla luce dell’evoluzione positiva del quadro normativo internazionale e nazionale, di dover mettere in campo tutti gli strumenti a sua disposizione e che rientrino nelle proprie competenza al fine di dare impulso e piena attuazione alla Convenzione di Istanbul soprattutto nelle parti che riguardano la prevenzione e la tutela e la prevenzione della vittima, prevenzione e tutela che passano anche per una ferrea attenzione da porre con riferimento all’educazione, alla diffusione di modelli culturali e alla formazione di tutti gli operatori coinvolti.
Se il Ministro competente non ritenga inoltre, nell’ambito delle sue proprie prerogative, di dover far luce sulla vicenda citata, al fine, quanto meno, di chiarire la congruità delle motivazioni della sentenza emessa dalla Corte di Appello di Firenze sul caso Fortezza del basso con il quadro normativo internazionale, europeo e nazionale.
Roberta Agostini
Gasparini D.
Albini Tea
Cenni S.
Murer D.
Fabbri M.